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Affabulazione di Pier Paolo Pasolini

recensione di Francesca Palmieri

La tragedia inizia con un sogno: il sogno, d'estate, nella sua villa in Brianza, di un industriale lombardo che ricomincia in qualche modo a sentirsi bambino, mentre prova una oscura attrazione per il figlio. Vorrebbe rinnovarsi in lui, recuperando quello stato edenico che è l'ebbrezza libera e ingenua della perfetta adolescenza. Questa storia di "attrazione" e "repulsione" tra padre e figlio diventa, nelle intenzioni del drammaturgo, una straziata metafora del mancato dialogo tra due generazioni, in quegli anni Sessanta in cui il reciproco silenzio portò il nostro paese a conflitti drammaticamente cruenti.

1966: questo è l’anno cruciale in cui Pasolini compone le sue tragedie, in maniera personale e scompigliando il tradizionale modo di scrivere teatro. Scompaiono gli atti, compaiono gli episodi, otto di numero; prologo ed epilogo si riallacciano e l’uno torna all’altro. “Affabulare” qui significa accumulare, esporre infinitamente, aggiungere racconto su racconto. Protagonisti assoluti di queste “vicende un po’ indecenti”, come l’ombra di Sofocle recita nel prologo, sono un padre ed un figlio. Ancora di più un padre, o forse sarebbe meglio dire “Il” padre, lo stesso che appare in quasi tutte le opere di Pasolini, ossessivamente e contraddittoriamente.

L’esperienza autobiografica dell’autore influisce sulla pagina scritta, la condisce di particolari forti e la tinge di colori accesi, i tipici colori del rancore, dell’incomprensione ma forse anche dell’affetto mancato. Il rapporto col genitore è ambivalente, conflittuale e opposto a quello con la madre. Se essa è vista come figura angelica e rappresentata spesso con termini da lirica cristiana, il padre è descritto come centro di contraddizione in cui domina la sfera ambigua. Tra padre e figlio c’è continuo scambio di ruoli, compenetrazione paradossale proprio perché nasce da una divisione, da una frattura interna ed emotiva. L’odio tra i due dovrebbe respingere, invece attrae. Ma non è tanto il figlio che vuol essere padre, quanto il padre che vuol essere figlio. Ed il motivo è semplice: l’adulto invidia e brama la giovinezza perduta, la leggerezza, la bellezza fisica del ragazzo.

In Affabulazione c’è il rovesciamento del mito edipico: è un dramma dedicato al complesso di Laio. Il padre considera il figlio un enigma da decifrare, pieno di fascino. Ma qui sta l’errore: l’enigma si può risolvere, basta usare la ragione, mentre il figlio non si può decifrare e, come afferma Sofocle, in realtà è un mistero, senza soluzione. Lo stesso Edipo ha sciolto l’enigma della Sfinge ma non il mistero della condizione umana. Il padre subirà lo scacco di non poter mai arrivare al cuore, al dunque del figlio e quest’ultimo resterà sempre sfuggente e inafferrabile, un’entità a sé. Il padre tende all’innocenza, al corpo e al sesso del figlio, giungendo fino al delirio, alla pazzia, alla perdita di lucidità.

Realtà, visioni e sogno si prendono per mano. Il primo episodio si apre con un sogno agitato del genitore, in cui torna un altro elemento portante di Pasolini: i piedi, contro cui si rivolge l’aggressività del padre, azione che altro non è che l’emblema del desiderio di castrazione, subìto anche da Edipo. Il sogno è fondamentale perché è una visione, in esso c’è la radice del guardare e dell’osservare. Si guarda un oggetto a fondo per possederlo e per andare oltre. Apparire è essere, è facoltà tipica di Dio: Dio è quando appare. Parlare è cosa da poco in confronto, perché la realtà si può solo rappresentare, non dire: la realtà è solo quella del sogno e della scena. Guardare, inoltre, è simile al mangiare, all’ingoiare e al divorare: per essere un’unità, per avere totale controllo su qualcosa o qualcuno.

Anche se in misura secondaria, la madre ha un ruolo preciso in questa drammaturgia paterna: è colei che guarda stupita e sconvolta gli atteggiamenti ridicoli e ambigui del marito, raccontando di quanto prima fosse diverso e sano. Adesso è una persona malata e si spoglia sempre. Questa riduzione alla nudità è un raggiungere l’essenza vera, un ritorno al primitivo, al selvaggio e all’origine. E’ una sorta di ribellione alla società borghese chiusa e capitalistica, al servizio del denaro, perché Pasolini detesta e condanna il progresso e tutto ciò che deturpa la natura, lo status antico dell’uomo. La nudità è un modo di essere più profondo e più vero, ormai perso. Il padre in questi suoi deliri osserva il figlio ma vuole anche farsi vedere da lui, soprattutto in situazioni intime, come per mostrare ancora la sua forza virile, la sua sessualità attiva. E’ preso da una pulsione voyeristica, molto oltre la semplice trasgressione, che è alla base di ogni comportamento dei personaggi pasoliniani. Chiede persino alla moglie di avere un rapporto sessuale di fronte al figlio ma la donna non accetta e lo stesso giovane scappa quando sorprende il padre nell’atto della masturbazione. Pasolini considera la masturbazione sempre un atto di rifiuto verso la società: disperdere il seme equivale a sottrarsi alla moltiplicazione, alla massificazione.

La vicenda nella prima parte si svolge in una villa, la classica abitazione lussuosa e alto borghese, ma dopo si sposta in una stazione, luogo importante perché rappresenta il momento in cui il viaggio non c’è, è pausa dal cammino, è immobilità dismessa. Il figlio è lavoro intenso, molto crudo e realistico. L’argomento è accorato, il pathos e la sofferenza dominano in ogni pagina. Monologhi che conquistano ma risultano fin troppo eccessivi. Tutto è in eccesso e amplificato, in Pasolini. La figura paterna è davvero caricata di comportamenti e parole che possono destare scandalo. Ma l’intento dell’autore è proprio questo: scandalizzare, scuotere, far parlare. La tragedia si legge in un’ora ma ci si ferma a riflettere molto di più. Perché tra le pieghe dell’eccesso, qualche verità si cela.

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